Pietro I di Russia

1672 - 1725

Pietro I di Russia
Nazione: Russia

ID: 2490

Pietro I Romanov, detto Pietro il Grande (Mosca, 9 giugno 1672 – San Pietroburgo, 8 febbraio 1725), fu zar e, dal 1721, imperatore di Russia. Il suo regno ebbe inizio nel 1682, all’età di 10 anni, in coreggenza con Ivan V, malato sia mentalmente che fisicamente e pertanto impossibilitato a regnare. Alla morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1696, Pietro divenne l’unico sovrano fino al 1724, anno a partire dal quale la moglie Caterina I lo affiancò in questo compito.

Biografia

Gioventù ed ascesa al trono

Pietro I il Grande in un ritratto giovanile.
Pietro I il Grande in un ritratto giovanile.

Pietro nacque a Mosca all’una del mattino del 30 maggio 1672, figlio dello zar Alessio e della sua seconda moglie Natal’ja Kirillovna Naryškina. Gli venne dato il nome Pietro in onore dell’apostolo e seguendo la vecchia usanza di prendere le misure ai bambini, fu dipinta un’immagine di San Pietro Apostolo su una tavoletta delle stesse misure del piccolo: 50 cm di lunghezza e 16 cm di larghezza.

La nascita del nuovo zarevič fu annunciata dai rintocchi della campana della torre di Ivan il Grande e i cannoni del Cremlino spararono a salve per tre giorni mentre le campane delle milleseicento chiese di Mosca suonavano a festa. Pietro venne battezzato dal confessore personale dello zar Alessio il 29 giugno, giorno della solennità dei Santi Pietro e Paolo.

L’8 febbraio 1676 lo zar Alessio morì e al trono di Russia salì Fëdor, primogenito semi-invalido di Alessio e della prima moglie Marija Miloslavskaja. Nel 1674 lo zar Alessio aveva infatti nominato, per pura formalità, il figlio Fëdor erede al trono pensando che il figlio gli sarebbe premorto.

Durante il regno dello zar Fëdor la vita di Pietro trascorse tranquillamente alternando i giochi allo studio nei palazzi del Cremlino o nel Kolomenskoe. L’educazione di Pietro era affidata a diversi tutori, tra i quali Nikita Zotov.

Il 27 aprile 1682 lo zar Fëdor morì senza eredi: il fratello di Fëdor, Ivan, primo in linea di successione, era invalido ed infermo di mente; perciò l’assemblea dei boiari, su suggerimento dello stesso zar deceduto, propose di far scegliere alla folla ammassata all’esterno del palazzo quale tra i due principi dovesse essere il nuovo zar. La folla, quasi all’unanimità, elesse Pietro come futuro zar sotto la reggenza della madre.

La rivolta degli Strelzi

La zarevna Sofia, figlia di primo letto di Alessio I, contrariata della scelta, con l’aiuto di Ivan Miloslavskij, del principe Ivan Khovanskij e del principe Vasilij Golicyn istigò gli strelzi alla rivolta. Il 15 maggio 1682 i cavalieri Aleksandr Miloslavskij e Petr Tolstoj, su ordine di Sofia, si recarono nel Quartiere degli Strelzi informandoli che i Naryškin avevano assassinato lo zarevič Ivan e che volevano fare altrettanto con il resto della famiglia reale. All’udire tali informazioni, la rivolta scoppiò: armati di lance, alabarde, spade e moschetti gli Strelzi si diressero minacciosi verso il Cremlino.

Giunti al palazzo gli Strelzi chiesero a gran voce che fossero consegnati loro i Naryškin e Artamon Matveev responsabili, a loro dire, della morte dello zarevič Ivan. Compreso che la rivolta era frutto di un malinteso, Matveev chiese alla reggente Natalia di mostrare agli Strelzi che Pietro ed Ivan erano vivi. La donna, seppure spaventata, obbedì e questo fatto, insieme ad un discorso tenuto da Matveev e dal patriarca Gioacchino sembrò calmare la folla di rivoltosi, ma appena Matveev rientrò dentro il palazzo, il principe Mikhail Dolgorukij, figlio del comandante degli Strelzi, minacciò la folla e questo gesto spinse gli Strelzi a riprendere la rivolta.

Dolgorukij venne preso di peso e gettato sulle lance degli altri rivoltosi, quindi il suo corpo fu fatto a pezzi; poi i rivoltosi penetrarono all’interno del palazzo dove diedero sfogo alla loro ira depredando e massacrando i loro rivali e coloro che li proteggevano: tra le vittime di questo massacro ci furono Artamon Matveev, la maggior parte dei boiari, Afanasij Naryškin, fratello della reggente Natalia, il direttore degli Affari esteri Ivanov, suo figlio Vasilij e il boiaro Romodanovskij. Il massacro terminò solo con il calare della notte e tutti corpi o i resti di essi vennero poi portati nella Piazza Rossa e per essere mostrati al popolo russo.

Il giorno seguente gli Strelzi tornarono ad assaltare il Cremlino, questa volta in cerca di Ivan Naryškin, secondo fratello della reggente, di due medici sospettati di aver avvelenato Fëdor e di altri traditori; dato l’esito negativo della ricerca, gli Strelzi fecero ritorno al Cremlino anche il terzo giorno minacciando la stessa famiglia reale se non fosse stato consegnato loro Ivan Naryškin. Ivan, nella speranza di poter così calmare la rivolta, si consegnò nelle mani degli Strelzi, i quali prima lo torturarono per ore e poi fecero a pezzi il suo corpo; la rivolta ed il massacro compiuto dagli Strelzi era così terminato.

Matrimonio con Evdokija

Evdokija Fëdorovna Lopuchina, prima moglie di Pietro.
Evdokija Fëdorovna Lopuchina, prima moglie di Pietro.

Nel frattempo si era aperto il problema della successione al trono. Ivan, infatti, dal matrimonio al quale era stato costretto aveva avuto solo figlie femmine e alla zarevna Sofia era impedito il matrimonio. Pietro si trovava così costretto a sposarsi e a generare un erede per il trono di Russia. Poiché egli non dimostrava il minimo interesse per la cosa lasciò che fosse la madre Natalia a combinare il matrimonio.

La donna scelse per il figlio la giovane Evdokija Lopukhina, appartenente ad una vecchia famiglia moscovita. Il loro matrimonio, celebrato il 27 gennaio 1689, si rivelò un completo fallimento a tal punto che, dopo poco tempo, a stento Pietro riusciva a sopportare la presenza della moglie al suo fianco. Ben presto tra la stessa Natalia ed Evdokija iniziarono forti tensioni e divergenze.

I primi anni di regno

Per altri cinque anni lo zar trascurò il governo per ritornare alla vita che conduceva a Preobraženskoe e al lago Pleščeevo, fatta di soldati-ragazzi, di barche e di assenza di responsabilità. Durante questo periodo il governo fu amministrato da un ristretto gruppo di persone che aveva sostenuto Pietro nel suo recente scontro con la reggente Sofia.

La zarina Natalia ne era il capo nominale; il patriarca Gioacchino era il suo più stretto collaboratore; Lev Naryškin, fratello di Natalia, era il direttore degli Affari esteri e il boiaro Tikhon Strešnev era il ministro degli Interni. Si annoveravano al governo anche altri nomi di prestigio: Boris Golicyn, Urusov, Romodanovskij, Troekurov, Prozorovskij, Golovkin, Dolgorukij. Repnin e Vinius conservarono i loro mandati e Boris Šeremetev rimase a capo dell’armata russa meridionale a fronteggiare i tartari.

Prima Campagna d’Azov

Nell’inverno 1695 Pietro annunciò che in estate la Russia avrebbe ripreso la guerra contro i tartari della Crimea e il loro padrone, l’impero ottomano. Il desiderio di Pietro di raggiungere il mare e di mettere alla prova il suo esercito insieme ad altre ragioni (le continue incursioni tartare e la necessità di ottenere un risultato militare che soddisfacesse la Polonia) spinsero Pietro ad attaccare la fortezza turca di Azov, necessaria per ottenere il controllo delle foci dei fiumi Dnepr e Don e quindi l’accesso al Mar Nero.

Diversamente dalle precedenti spedizioni, Pietro decise di usare le chiatte come mezzo di trasporto; furono formate due distinte armate: l’armata orientale, il cui compito era quello di muoversi a sud del Don per attaccare la fortezza di Azov, e quella occidentale, il cui compito era muoversi lungo il Dnepr per attaccare i due forti di Očakov e Kazikerman e distrarre il grosso della cavalleria tartara dalle truppe di Pietro ad Azov. Nel mese di marzo il generale Gordon lasciò Mosca con 10.000 soldati, muovendo verso sud attraverso la steppa mentre il grosso dell’esercito (21.000 uomini) con Pietro, Lefort e Golovin lasciò la capitale a maggio imbarcandosi sulle chiatte, raggiungendo Gordon ad Azov il 29 giugno.

La campagna si rivelò però fallimentare a causa di diversi problemi: mancavano ingegneri esperti in assedi, il sistema di approvvigionamento era impreparato ad affrontare il problema del vettovagliamento di 30.000 uomini per un lungo periodo e gli Strelzi si rifiutavano di eseguire ordini impartiti da ufficiali europei. A peggiorare la situazione fu il tradimento del marinaio olandese Jacob Jensen che, passato ai turchi, rivelò loro importanti informazioni per sconfiggere l’esercito russo. Il 15 agosto i russi sferrarono un massiccio attacco a sorpresa contro la fortezza senza però riuscire ad espugnarla e riportando perdite superiori ai millecinquecento uomini.

Un secondo attacco fallimentare e l’arrivo del freddo inverno costrinsero Pietro a togliere l’assedio ad Azov il 12 ottobre. La ritirata verso nord fu un disastro, che costò in vite umane più della campagna di assedio. Per sette settimane i russi arrancarono sotto la pioggia attraverso la steppa inseguiti e falcidiati dalla cavalleria tartara. Il 2 dicembre i superstiti raggiunsero Mosca. Pietro, imitando i precedenti di Sofia e Golicyn che egli stesso aveva condannato, tentò di mascherare la sconfitta imbastendo un trionfale rientro nella capitale.

Seconda Campagna d’Azov

La presa della fortezza di Azov nel 1696.
La presa della fortezza di Azov nel 1696.

Senza perdersi d’animo, Pietro iniziò subito i preparativi per un secondo attacco, badando bene di risolvere i problemi che si erano creati nel corso del primo: richiese all’imperatore esperti artiglieri, ingegneri e abili marinai, ordinò la costruzione di 25 galee provviste di armamento e di 1.300 nuove chiatte in grado sia di trasportare viveri e truppe sia di poter affrontare le navi turche. Affinché fossero pronte entro il mese di maggio 1696, Pietro fece costruire nuovi cantieri navali a Voronež, città sul fiume Don; ampliò i cantieri già esistenti; reclutò un enorme numero di operai e si appellò al doge di Venezia affinché gli mandasse tecnici esperti nella costruzione delle galee.

Lo stesso Pietro si mise a costruire le navi: mentre il futuro “Grande” era impegnato in questa fatica erculea, l’8 febbraio 1696 lo zar Ivan morì improvvisamente. Ora Pietro era il solo zar, l’unico, supremo governatore dello Stato russo. Nonostante la mobilitazione generale fosse più circoscritta rispetto alla precedente, la forza destinata a sferrare il secondo assalto ad Azov era il doppio: 46.000 soldati russi affiancati da 15.000 cosacchi ucraini, 5.000 cosacchi del Don e 3.000 calmucchi.

Il 3 maggio parte della flotta russa iniziò il suo viaggio lungo il Don. Pietro, partito tempo dopo con una flotta di otto galee leggere, raggiunse il grosso della flotta il 26 maggio. Si aprirono subito le ostilità. Il 29 maggio, mentre i turchi stavano trasportando dalle navi a terra i viveri destinati alla fortezza, i cosacchi riuscirono a catturarne dieci e a mettere in fuga gli altri. Alcuni giorni dopo Pietro riuscì a far passare indisturbata la sua intera forza di 29 galee oltre la fortezza di Azov. La città venne così completamente isolata. L’esercito russo riuscì a cingere completamente d’assedio la città.

Il 26 giugno i cannoni russi aprirono il fuoco contro la fortezza di Azov; giorni dopo i turchi annunciarono la loro resa[36]: Pietro permise loro di lasciare Azov chiedendo però in cambio la consegna da parte loro del traditore Jensen, fece convertire le moschee presenti nell’abitato in chiese cristiane, ordinò la demolizione di tutte le opere d’assedio ed il ripristino delle mura fortificate e dei bastioni della città. Prima di lasciare Azov, Pietro assistette alla messa celebrata in una chiesa nuova. Il 10 ottobre lo zar fece trionfale ritorno a Mosca.

La Grande Ambasceria

Con la presa di Azov, Pietro aveva però ottenuto l’accesso solo al Mar d’Azov, perché l’entrata al Mar Nero era ancora bloccata dalla potente fortezza turca di Kerč, posta di traverso sullo stretto tra il Mar d’Azov e il Mar Nero. Per forzare questo stretto la Russia aveva bisogno non solo di uomini e tecnologia avanzata, ma anche di alleati potenti e fidati.

Con lo scopo principale di creare un’alleanza contro i turchi, venne costituita la “Grande Ambasceria”, alla quale avrebbe preso parte lo stesso zar in incognito con il nome di Petr Mikhajlov. Capo dell’Ambasceria, con il grado di primo ambasciatore, venne nominato Lefort. Gli altri due ambasciatori erano Fëdor Golovin e Prokofij Voznicyn. Al loro seguito c’erano venti nobili e trentacinque volontari, ai quali facevano seguito ciambellani, preti, segretari, interpreti, musici, cantori, cuochi, cocchieri, settanta soldati e quattro nani, per un totale di oltre duecentocinquanta persone.

Per governare la Russia in sua assenza, Pietro istituì un consiglio di reggenza composto da Lev Naryškin, dal principe Boris Golicyn e dal principe Petr Prozorovskij; nominalmente subordinato a questi tre uomini, ma di fatto viceré di Russia, fu il principe Fëdor Romodanovskij. La vigilia della partenza dell’Ambasceria fu funestata da un tragico episodio: il colonnello degi Strelzi Ivan Cykler e due boiari furono imprigionati con l’accusa di aver complottato contro lo zar.

Nonostante la scarsità di prove contro di essi, furono tutti condannati a morte e giustiziati in uno dei modi più atroci che la storia conosca: furono tagliate loro prima le gambe e le braccia, poi la testa e sotto il palco del boia era stata posta la bara di Ivan Miloslavskij, aperta affinché il sangue dei condannati defluisse sul cadavere. Il 20 marzo 1697 la Grande Ambasceria partiva alla volta di Novgorod e Pskov.

Gli ultimi anni

Nel 1717 venne smascherata una congiura ordita dal boiaro Aleksandr Kikin, che raggruppava vari oppositori di Pietro I attorno al suo figlio maggiore, Aleksej. La sentenza fu di condanna a morte per tutti i cospiratori, incluso Aleksej, nel 1718. Anche la madre di Aleksej venne perseguita a causa di false accuse di adulterio.

Gli ultimi anni di regno di Pietro I furono contrassegnati da ulteriori riforme. Nel 1721, dopo aver concluso la pace con la Svezia, venne acclamato Imperatore di tutta la Russia (alcuni gli proposero di prendere il titolo di Imperatore dell’Est ma egli rifiutò). Il titolo imperiale venne riconosciuto da Polonia, Svezia e Prussia, ma non dagli altri monarchi europei. Nella mente di molti la parola imperatore connotava superiorità sui semplici re. Molti regnanti temevono che Pietro volesse proclamare la sua autorità su di loro come, a suo tempo, l’imperatore del Sacro Romano Impero aveva proclamato la sua supremazia su tutte le nazioni cristiane.

Pietro riformò anche il governo della Chiesa ortodossa russa: nel 1700, quando il seggio di patriarca di Mosca rimase vacante, Pietro nominò un coadiutore che svolgesse tutto il lavoro, incamerò numerosi possedimenti del clero, inoltre avocò a sé la nomina dei vescovi e delle principali cariche ecclesiastiche e sancì che nessuno potesse entrare in monastero prima di aver compiuto cinquant’anni; infine, nel 1721, istituì il Santo Sinodo, un concilio di dieci ecclesiastici che prese il posto del patriarca e del coadiutore.

Poi, nel 1718, fu riformato il governo centrale: gli 80 prikazy, uffici, le cui competenze spesso si intersecavano l’un l’altro, furono sostituiti da nove collegi (aumentati a tredici nel 1722), i cui compiti furono descritti in modo dettagliato dal decreto che li istituì; poi, in modo da creare un sistema flessibile di controllo, furono istituiti ottanta governatorati, ognuno dei quali sotto un governatore, nominato dallo zar, con poteri amministrativi, militari e giuridici; tale sistema, tuttavia, creò alcuni abusi e pertanto Pietro, nel 1719, dissolse i governatorati in cinquanta province ognuna delle quali fu, a sua volta, divisa in distretti più piccoli.

Inoltre, nel 1722, allo scopo di privare i boiari del loro potere, Pietro, che aveva già soppresso tempo addietro lo Zemskij sobor, sostituendolo con un senato con funzioni consultive (i cui 10 membri venivano nominati direttamente dallo zar), istituì la Tavola dei ranghi, mediante la quale sancì che la posizione nobiliare poteva essere determinata non solo dal censo ma anche dal merito nel servizio all’imperatore nella burocrazia; al contempo, impose che ogni bambino, dai dieci ai quindici anni, appartenente alla nobiltà, al clero o fosse figlio di ufficiali, dovesse imparare matematica, geometria e dovesse essere sottoposto ad un esame finale al fine di identificare l’idoneità al servizio pubblico. La Tavola rimase in vigore fino alla fine della monarchia in Russia nel 1917.

Abolì la tassa sulla terra e quella sulla famiglia sostituendole con un’imposta pro-capite: le tasse sulla terra o sulla famiglia erano pagate solamente dai proprietari o da coloro che mantenevano una famiglia mentre la nuova tassa doveva essere pagata da tutti, compresi servi e poveri. Nel 1724 associò al trono Caterina, la sua seconda moglie, attribuendole il titolo di Imperatrice anche se peraltro mantenne nelle sue mani tutto il potere.

Pietro il Grande sul letto di morte.
Pietro il Grande sul letto di morte.

La sua ultima iniziativa militare fu la spedizione in Persia (1721-1724). Dawd Beg, khan persiano, nell’agosto 1721 occupò Shemakha, importante emporio russo sul Mar Caspio, nel kahanto di Shirwan, depredandone le mercanzie. Per ritorsione Pietro inviò 50.000 soldati con 80 navi nel mar Caspio, facendo occupare la penisola di Agrakan e conquistando Derbent, mentre lo zar di Kartli Vaktang IV con 30.000 uomini e il patriarca armeno con 8.000 soldati, alleati dei russi, marciarono con Dawd Beg a Ganjia. Nel 1723 le truppe russe conquistarono le province di Ghilan e Bakù. Gli Ottomani accorsero in aiuto di Dawd Beg e invasero Kartli, conquistando Tbilisi e i khanati di Erivan e Tabriz.

Nel settembre 1723 i Persiani chiesero la pace e si allearono con i Russi ai quali furono cedute Derbent, Baku, Ghilian, Mazanderam e Astrabad (litorale occidentale e meridionale del Caspio). Nel giugno 1724 venne firmata la pace russo-turca: gli Ottomani ottennero la Georgia, Erivan, Kasvin e Shemakhà. Nel 1725 fu completata la costruzione del Peterhof, un palazzo nei pressi di San Pietroburgo che divenne famoso come la “Versailles russa”.

La morte

Non avendo eredi, una legge del 1722 concesse a Pietro il privilegio di scegliere il suo successore ed egli scelse la moglie Caterina. Pietro morì nel 1725, venendo poi seppellito nella Cattedrale di Pietro e Paolo, nell’omonima fortezza da lui voluta a San Pietroburgo. L’imperatrice Caterina ha l’appoggio sulla guardia imperiale. Dopo la morte di quest’ultima, nel 1727, il trono passò al nipote di Pietro I, Pietro II (figlio di Alessio) con il quale terminò la discendenza diretta maschile dei Romanov.

Dopo di lui la successione al trono fu caotica: i due successivi monarchi erano figli del fratellastro di Pietro I, Ivan V; i discendenti diretti di Pietro riconquisteranno il trono solo nel 1741 con un colpo di Stato. Nessun figlio salirà direttamente al trono occupato da un genitore prima di Paolo I che successe a Caterina la Grande, nel 1796, oltre settant’anni dopo la morte di Pietro I, che dedicò al predecessore la famosa statua equestre del Cavaliere di bronzo.

Ascendenza

pietro