Vittorio Emanuele I di Savoia

1820 - 1878

Vittorio Emanuele I di Savoia
Nazione: Italia

ID: 2255

Autografi

Vittorio Emanuele II di Savoia (Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia; Torino, 14 marzo 1820 – Roma, 9 gennaio 1878) è stato l’ultimo re di Sardegna (dal 1849 al 1861) e il primo re d’Italia (dal 1861 al 1878).

Dal 1849 al 1861 fu inoltre Principe di Piemonte, Duca di Savoia e Duca di Genova. Per non aver abrogato lo Statuto Albertino gli venne dato l’appellativo di Re galantuomo o Re gentiluomo, appellativo con cui è ricordato tutt’oggi. Egli, coadiuvato dal primo ministro Camillo Benso, conte di Cavour, portò a compimento il Risorgimento nazionale e il processo di unificazione italiana. Per questi avvenimenti viene indicato come “Padre della Patria”. A lui è dedicato il monumento nazionale eponimo del Vittoriano, sito a Roma, in piazza Venezia.

Biografia

Infanzia e Giovinezza

Vittorio Emanuele da bambino insieme alla madre, Maria Teresa di Toscana, e al fratello Ferdinando.
Vittorio Emanuele da bambino insieme alla madre, Maria Teresa di Toscana, e al fratello Ferdinando.

Vittorio Emanuele era il primogenito di Carlo Alberto, re di Sardegna, e di Maria Teresa di Toscana. Nacque a Torino nel palazzo della famiglia paterna e trascorse i primi anni di vita a Firenze. Il padre era uno dei pochi membri maschi di Casa Savoia, seppur del ramo cadetto. Dopo la morte del re di Sardegna e di suo fratello, Carlo Alberto sarebbe divenuto il legittimo re. Tuttavia, in seguito ai moti del 1821, che portarono all’abdicazione di Vittorio Emanuele I, Carlo Alberto fu costretto a trasferirsi con la sua famiglia a Novara, dato il suo coinvolgimento nei disordini.

Il nuovo re Carlo Felice, che non amò mai Carlo Alberto, gli fece però ben presto pervenire un ordine, in cui gli ingiungeva di trasferirsi in Toscana, completamente fuori dal regno. Avvenne così la partenza per Firenze, capitale del granducato retto dal nonno materno di Vittorio, Ferdinando III. Nel capoluogo toscano venne affidato al precettore Giuseppe Dabormida, che educò i figli di Carlo Alberto a una disciplina militaresca. Essendo fisicamente ben diverso dal padre, circolò la voce di una sostituzione del vero primogenito, che sarebbe morto, ancora in fasce, in un incendio nella residenza del nonno a Firenze, con un bimbo d’origine popolana il cui padre veniva indicato nell’Ottocento con il macellaio toscano Tanaca, che aveva denunciato in quegli stessi giorni la scomparsa di un figlio e che in seguito sarebbe divenuto improvvisamente ricco. o con un macellaio di Porta Romana, tale Mazzucca.

L’ipotesi, verso la quale la maggior parte degli storici esprime quantomeno dubbi confinandola nell’ambito del pettegolezzo. e negata per oltre un secolo, è stata ripresa da alcuni storici moderni, che contestano il verbale dell’incendio redatto del caporale Galluzzo ritenendo poco credibile che l’incendio abbia ucciso la nutrice, presente nella stanza, ma lasciato illeso l’infante.

Questa “leggenda” sull’origine popolana del Re Galantuomo verrebbe smentita da due elementi: il primo è che la giovane età dei genitori avrebbe comunque permesso di generare un secondo erede al trono, come infatti avvenne con la nascita di Ferdinando, rendendo pertanto inutile il ricorso a questo stratagemma; il secondo elemento è dato da una lettera che Maria Teresa inviò al proprio padre il Granduca nella quale, parlando del piccolo Vittorio e della sua vivacità, diceva:”Io non so veramente di dove sia uscito codesto ragazzo. Non assomiglia a nessuno di noi, e si direbbe venuto per farci disperare tutti quanti”: cosa, che se il bambino non fosse stato figlio suo, si sarebbe ben guardata dallo scrivere.

Quando, nel 1831, Carlo Alberto fu chiamato a succedere a Carlo Felice di Savoia, Vittorio Emanuele lo seguì a Torino, dove fu affidato al conte Cesare di Saluzzo, affiancato da uno stuolo di precettori, tra cui il generale Ettore De Sonnaz, il teologo Andrea Charvaz, lo storico Lorenzo Isnardi e il giurista Giuseppe Manno. La disciplina pedagogica in Casa Savoia era sempre stata spartana e sembrava fatta apposta per uccidere ogni entusiasmo, gioia di vivere. Le uniche tenerezze che ricevette fu dalla madre, ma mai dal padre, che non ne era capace con nessuno, e che casomai gli preferiva il fratellino Ferdinando. I precettori, rigidi formalisti scelti in base all’attaccamento per il trono e l’altare, gli imponevano orari da caserma sia d’estate sia d’inverno: sveglia alle 5:30, tre ore di studio, un’ora di equitazione, un’ora per la colazione, poi scherma e ginnastica, poi altre tre ore di studio, mezz’ora per il pranzo e la visita di etichetta alla madre, mezz’ora di preghiere per concludere la giornata.

Gli sforzi dei dotti precettori ebbero, però, scarso effetto sulla refrattarietà agli studi di Vittorio Emanuele che, di gran lunga, preferiva dedicarsi ai cavalli, alla caccia e alla sciabola, oltre che all’escursionismo in montagna (il 27 luglio 1838 Vittorio Emanuele salì in vetta al Rocciamelone), rifuggendo la grammatica, la matematica, la storia e qualunque altra materia che richiedesse lo studio o anche la semplice lettura. I risultati erano così scarsi che un giorno, non aveva che dieci anni, il padre lo convocò davanti a un notaio facendogli prendere solenne impegno, con tanto di carta bollata, di impegnarsi di più nello studio. Non gli fece mai una carezza. Solo due volte al giorno gli dava la mano da baciare dicendo: C’est bon. E per saggiarne la maturità, gli ingiungeva di rispondere per iscritto a quesiti di questo tipo:”Può un Principe prendere parti a contratti di compra-vendita di cavalli?”.

Vittorio promise e non mantenne. Difatti i risultati non migliorarono che di poco, e lo si vede dalle lettere autografe che scrisse nel corso della sua vita e che rappresentano un vero e proprio insulto alla sintassi e alla grammatica; le uniche materie nelle quali aveva un certo profitto erano la calligrafia e il regolamento militare. Viceversa era talmente privo di orecchio e allergico a ogni senso musicale, che dovette fare degli studi apposta per imparare a dare i comandi perché stonava anche in quelli.

Quando a diciotto anni gli affibbiarono il grado di Colonnello e il comando di un reggimento toccò il cielo con un dito: non solo per il comando, grazie al quale poteva finalmente dare sfogo alla sua ambizione di carattere militare, ma anche perché significava la fine di quel regime oppressivo che l’aveva tormentato nell’inutile tentativo di dargli una cultura.

Ottenuto il grado di generale, sposò la cugina Maria Adelaide d’Austria nel 1842. Ebbe inoltre un’intensa relazione con Laura Bon dalla quale ebbe una figlia, Emanuela (1853) che fu creata dallo stesso Re contessa di Roverbella.

I primi anni di Regno

Carlo Alberto, acclamato come sovrano riformatore, concessa la costituzione il 4 marzo 1848 e dichiarata guerra all’Austria, apriva intanto il lungo periodo noto come Risorgimento Italiano entrando in Lombardia con truppe piemontesi e italiane accorse in suo aiuto. Gli esiti della prima guerra di indipendenza andarono però assai male per il Regno di Sardegna, abbandonato dai sostenitori: sconfitto il 25 luglio a Custoza e il 4 agosto a Milano negoziò un primo armistizio il 9 agosto. Riprese le ostilità il 20 marzo 1849, il 23 marzo, dopo una violenta battaglia nella zona presso la Bicocca, Carlo Alberto inviò il generale Luigi Fecia di Cossato per trattare la resa con l’Austria. Le condizioni furono durissime e prevedevano la presenza di una guarnigione austriaca nelle piazzeforti di Alessandria e di Novara. Carlo Alberto, al cospetto di Wojciech Chrzanowski, Carlo Emanuele La Marmora, Alessandro La Marmora, Raffaele Cadorna, di Vittorio Emanuele e del figlio Ferdinando di Savoia-Genova, firmò la sua abdicazione e, con un falso passaporto, riparò a Nizza, da dove partì per l’esilio in Portogallo.

La notte stessa, poco prima della mezzanotte, Vittorio Emanuele II si recò presso una cascina di Vignale, dove l’attendeva il generale Radetzky, per nuovamente trattare la resa con gli austriaci, ovvero per la sua prima azione da sovrano. Ottenuta una attenuazione delle condizioni contenute nell’armistizio, (il Radetzky non voleva spingere il giovane sovrano nelle braccia dei democratici), Vittorio Emanuele II diede però assicurazione di voler agire con la massima determinazione contro il partito democratico, al quale il padre aveva consentito tanta libertà e che l’aveva condotto verso la guerra d’indipendenza contro l’Austria, sconfessando pienamente l’operato del padre e definendo i Ministri un “branco di imbecilli”, ma ribadendo al generele Radetzky di disporre ancora di 50.000 uomini da gettare nella mischia, i quali però esistevano solo sulla carta. Ma si sarebbe rifiutato di revocare la costituzione (Statuto), malgrado le pressioni dell’Austria, unico sovrano in tutta la Penisola a conservarla.

Roma capitale e gli ultimi anni

Giuramento di Vittorio Emanuele II prestato a Palazzo Madama.
Giuramento di Vittorio Emanuele II prestato a Palazzo Madama.

All’unità d’Italia mancavano ancora importanti territori: il Veneto, il Trentino, il Friuli, il Lazio, l’Istria e Trieste. La capitale “naturale” del neonato regno avrebbe dovuto essere Roma, ma ciò era impedito dall’opposizione di Napoleone III che non aveva alcuna intenzione di rinunciare al suo ruolo di protettore del papa. Per dimostrare che Vittorio Emanuele II rinunciava a Roma, e quindi per attenuare la situazione di tensione con l’imperatore francese, si decise di spostare la capitale a Firenze, città vicina al centro geografico della penisola italiana. Tra il 21 e il 22 settembre 1864 scoppiarono sanguinosi tumulti per le vie di Torino, che ebbero come risultato una trentina di morti e oltre duecento feriti. Vittorio Emanuele avrebbe voluto preparare la cittadinanza alla notizia, al fine di evitare scontri, ma la notizia in qualche modo era trapelata. Il malcontento era generale, e così descrisse la situazione Olindo Guerrini:

« Oh, i presagi tristi per l’avvenire di Torino che si facevano al tempo del trasporto della capitale! E li facevano i Torinesi stessi, che per un momento perdettero la fiducia in sé medesimi. »
In seguito a nuovi fatti di cronaca, che comportarono il ferimento di alcuni delegati stranieri e violente sassaiole, Vittorio Emanuele II mise la città davanti al fatto compiuto facendo pubblicare sulla Gazzetta del 3 febbraio 1865 questo annuncio:

« Questa mattina, alle ore 8.00, S.M. il Re è partito da Torino per Firenze, accompagnato da S.E. il presidente del Consiglio dei Ministri »
Vittorio Emanuele riceveva così gli onori dei Fiorentini, mentre oltre 30.000 funzionari di corte si trasferirono in città. La popolazione, abituata al modesto numero dei ministri granducali, si trovò spiazzata di fronte all’amministrazione del nuovo regno, che intanto aveva siglato l’alleanza con la Prussia contro l’Austria.

Il 21 giugno 1866 Vittorio Emanuele lasciava Palazzo Pitti diretto al fronte, per conquistare il Veneto. Sconfitto a Lissa e a Custoza, il Regno d’Italia ottenne comunque Venezia in seguito ai trattati di pace succeduti alla vittoria prussiana.

Roma rimaneva l’ultimo territorio ancora non inglobato dal nuovo regno: Napoleone III manteneva l’impegno di difendere lo Stato Pontificio e le sue truppe erano stanziate nei territori pontifici. Vittorio Emanuele stesso non voleva prendere una decisione ufficiale: attaccare o no. Urbano Rattazzi, che era divenuto primo ministro, sperava in una sollevazione degli stessi Romani, cosa che non avvenne. La sconfitta riportata nella Battaglia di Mentana aveva gettato poi numerosi dubbi sull’effettiva riuscita dell’impresa, che poté avvenire solo con la caduta, nel 1870, di Napoleone III. L’8 settembre fallì l’ultimo tentativo di ottenere Roma con mezzi pacifici, e il 20 settembre il generale Cadorna aprì una breccia nelle mura romane. Vittorio Emanuele ebbe a dire:

« Con Roma capitale ho sciolto la mia promessa e coronato l’impresa che ventitré anni or sono veniva iniziata dal mio magnanimo genitore. »
Quando gli eccitati ministri Lanza e Sella gli presentarono il risultato del plebiscito di Roma e Lazio, il Re rispose a Sella in piemontese:

“Ch’a staga ciuto; am resta nen àut che tireme ‘n colp ëd revòlver; për lòn ch’am resta da vive a-i sarà nen da pijé.” (Stia zitto; non mi resta altro che tirarmi un colpo di pistola; per il resto della mia vita non ci sarà niente più da prendere.)

La questione romana

Vittorio Emanuele II in un ritratto di F. Perrini del 1851.
Vittorio Emanuele II in un ritratto di F. Perrini del 1851.

Con Roma capitale si chiudeva la pagina del Risorgimento, anche se ancora mancavano a completamento dell’unità nazionale le cosiddette “terre irredente”. Tra i vari problemi che il nuovo Stato dovette affrontare, dall’analfabetismo al brigantaggio, dall’industrializzazione al diritto di voto, vi fu oltre la nascita della famosa questione meridionale, anche la “questione romana”. Nonostante fossero stati riconosciuti al Pontefice speciali immunità, gli onori di Capo di Stato, una rendita annua e il controllo sul Vaticano e su Castel Gandolfo, Pio IX rifiutava di riconoscere lo stato italiano per via dell’annessione di Roma al regno d’Italia avvenuta con la Breccia di Porta Pia e ribadiva, con la disposizione del Non expedit (1868), l’inopportunità per i cattolici italiani di partecipare alle elezioni politiche dello Stato italiano e, per estensione, alla vita politica. Inoltre il Pontefice inflisse la scomunica a Casa Savoia, vale a dire sia a Vittorio Emanuele II sia ai suoi successori, e insieme con loro a chiunque collaborasse al governo dello Stato, questa scomunica venne ritirata solo in punto di morte del Sovrano. Comunque Vittorio Emanuele, quando gli si accennava alla vicenda di Roma, mostrava sempre un malcelato fastidio tanto che, quando gli proposero di fare un ingresso trionfale a Roma e salire sul Campidoglio con l’elmo di Scipio rispose che per lui quell’elmo era: “Buono solo per cuocerci la pastasciutta!”. Infatti, se il padre era stato estremamente religioso, Vittorio Emanuele era uno scettico ma molto superstizioso che subiva molto l’influenza del clero e l’ascendente del Pontefice.

Morte

Vittorio Emanuele II, in abito da caccia, nel Palazzo Nazionale di Ajuda, Lisbona.
Vittorio Emanuele II, in abito da caccia, nel Palazzo Nazionale di Ajuda, Lisbona.

A fine dicembre dell’anno 1877 Vittorio Emanuele II, amante della caccia ma delicato di polmoni, passò una notte all’addiaccio presso il lago nella sua tenuta di caccia laziale. L’umidità di quell’ambiente gli risultò fatale. Secondo altri storici le febbri che portarono alla morte Vittorio Emanuele erano invece febbri malariche, contratte proprio andando a caccia nelle zone paludose del Lazio.

La sera del 5 gennaio 1878, dopo aver inviato un telegramma alla famiglia di Alfonso La Marmora, da poco scomparso, Vittorio Emanuele II avvertì i forti brividi della febbre.

Il 7 gennaio venne divulgata la notizia che il Re aveva i giorni contati. Papa Pio IX, quando seppe della ormai imminente scomparsa del sovrano, volle inviare al Quirinale monsignor Marinelli, incaricato forse di ricevere una ritrattazione del re e di accordare al Re morente i sacramenti, ma il prelato non fu ricevuto. Il re ricevette gli ultimi sacramenti dalle mani del suo cappellano, monsignor d’Anzino, che si era rifiutato di introdurre Marinelli al capezzale del Re, poiché si temeva che dietro l’azione di Pio IX si nascondessero degli scopi segreti.

Quando il medico gli chiese se voleva vedere il confessore, il Re lo fissò con un piccolo trasalimento di stupore, ma non di paura. “Ho capito” disse, e fece entrare il cappellano. Questi rimase con lui una ventina di minuti, poi andò alla parrocchia di San Vincenzo per prendere il viatico. Il parroco disse che non era autorizzato a darglielo, e per rimuovere la sua resistenza fu necessario l’intervento del Vicario. Il re rimase presente a sé stesso fino all’ultimo, e volle morire da Re. Rantolante, si fece trarre sui cuscini, si buttò sulle spalle una giacca grigia da caccia, e lasciò sfilare ai piedi del letto tutti i dignitari di Corte salutandoli uno per uno con un cenno della testa. Infine chiese di restare solo con Umberto e Margherita, ma all’ultimo fece introdurre anche il figlio che aveva avuto dalla Rosina, Emanuele di Mirafiori, e per la prima volta costui si trovò di fronte a Umberto che non aveva mai voluto incontrarlo.

Il 9 gennaio alle ore 14:30 il Re morì dopo 28 anni e 9 mesi di regno, assistito dai figli ma non da Rosa Vercellana (a cui fu impedito di recarsi al capezzale dai ministri del Regno).

La commozione che investì il Regno fu unanime e i giornali fecero a gara sul titolo più lacrimoso. Il Piccolo di Napoli titolò: “È morto il più valoroso dei Maccabei, è morto il leone di Israele, è morto il Veltro dantesco, è morta la provvidenza della nostra casa. Piangete, o cento città d’Italia! piangete a singhiozzo, o cittadini!…” Ma di questa istigazione alla préfica non c’era bisogno perché gli italiani piangevano davvero, compresi quelli che non erano di fede Monarchica. “Chi sapeva, o gran re, di amarti tanto?” si chiedeva Fabio Nannarelli. Perfino Cavallotti, l’araldo della Sinistra italiana, si commosse, e scrisse a Umberto. Tutta la stampa, compresa quella straniera, fu unanime nel cordoglio. A far stecca nel coro furono, e non poteva essere altrimenti, i giornali austriaci Neue Freie Presse e il Morgen Post. L’Osservatore Romano scrisse: “Il re ha ricevuto i Santi Sacramenti dichiarando di domandare perdono al Papa dei torti di cui si era reso responsabile”. L’Agenzia Stefani smentì immediatamente. La Curia smentì la smentita. E i giornali laici insorsero a una voce dando al Papa di “avvoltoio” e accusandolo di “infame speculazione sul segreto confessionale”. Così quella che avrebbe potuto essere un’occasione di distensione, diventò un ennesimo motivo di rissa.

Vittorio Emanuele II aveva espresso il desiderio che il suo feretro fosse tumulato in Piemonte, nella Basilica di Superga, ma Umberto I, accondiscendendo alle richieste del Comune di Roma, approvò che la salma rimanesse in città, nel Pantheon nella seconda cappella a destra di chi entra, adiacente cioè a quella con l’Annunciazione di Melozzo da Forlì. La sua tomba divenne la meta di pellegrinaggi di centinaia di migliaia di italiani, provenienti da tutte le regioni del Regno, per rendere omaggio al Re che aveva unificato l’Italia. Si calcola che gli Italiani presenti al funerale di stato superarono le 200.000 persone Stendendo il proclama alla nazione, Umberto I (che adottò il numerale I invece del IV, che avrebbe dovuto mantenere secondo la numerazione sabauda), così si espresse:

« Il vostro primo Re è morto; il suo successore vi proverà che le Istituzioni non muoiono! »

Ascendenza

vittorio emanuele

 

Lettera di Vittorio Emanuele I di Savoia

 

Vittorio emanuele I di savoia